Lupo Canis lupus

Lunghezza testa-corpo (sottospecie nominale):
100-140 cm; lunghezza coda 300-400 mm.
Altezza al garrese:
70-80 cm.
Peso:
25-50 kg.
Distribuzione:
Regione Olartica e Indiana. In Europa la distribuzione attuale è stata fortemente influenzata dalla persecuzione diretta da parte dell’uomo. Popolazioni di una certa consistenza si trovano nella Penisola Iberica, in Italia e nella Penisola Balcanica


Caratteristiche generali

Dimensioni e colorazione del mantello presentano una notevole variabilità in relazione alle numerose sottospecie esistenti: 32 secondo Mech (1970), di cui 24 nordamericane e 8 euroasiatiche. Attualmente si tende tuttavia a considerarne valido un numero inferiore di forme sottospecifiche. Alla popolazione italiana di lupo era stato riconosciuto lo status di sottospecie (Canis lupus italicus Altobello, 1921), tuttavia attualmente, nonostante il Lupo italiano presenti alcune caratteristiche, sia morfologiche sia genetiche, differenti dalle altre popolazioni europee, esso non viene considerato come sottospecie a se stante (Boitani, 1992). Il lupo è monogamo e le coppie possono restare unite per molti anni o per tutta la vita utilizzando le stesse tane e gli stessi territori di caccia. Generalmente i giovani restano con i genitori per un periodo variabile, di solito comunque fino al raggiungimento della maturità sessuale, cioè intorno ai due anni. In questo modo durante la stagione riproduttiva si formano gruppi familiari costituiti da individui adulti, sub-adulti e cuccioli, caratterizzati da una precisa struttura gerarchica, e nei quali i membri sono uniti da forti legami affettivi. Ciascun gruppo occupa un territorio la cui estensione è funzione di numerosi fattori fra cui la densità e la distribuzione delle prede, la competizione intraspecifica ecc., e i cui confini vengono delimitati per mezzo di frequenti marcamenti ottenuti depositando urina o escrementi su punti particolarmente evidenti (pietre, cespugli, ceppi, ecc.). Il lupo è tipicamente un predatore di grossi erbivori, tuttavia molte altre componenti possono entrare più o meno regolarmente nella sua dieta, in particolare micromammiferi, lagomorfi, invertebrati e persino frutta e bacche, senza dimenticare naturalmente, laddove siano presenti, il bestiame domestico e i rifiuti, a dimostrazione della capacità della specie di sfruttare appieno le risorse disponibili. Grazie alla sua straordinaria adattabilità è in grado di sopravvivere in ambienti con caratteristiche estremamente diversificate, dalle tundre artiche ai deserti sassosi del Medio Oriente.


Status e modificazioni recenti
Il lupo è scomparso in tempi più o meno recenti da gran parte dell’areale storico: nelle Isole Britanniche gli ultimi lupi sono stati uccisi attorno alla metà del 18° secolo. Sorte non diversa hanno avuto i lupi in molti altri Paesi europei, dove una accanita persecuzione attuata con ogni mezzo ha portato alla loro estinzione: in Danimarca l’ultimo lupo è stato ucciso nel 1772 e in Scandinavia circa un secolo dopo, in Francia e in gran parte dell’Europa centrale il lupo era quasi estinto all’inizio del nostro secolo, mentre negli Stati Uniti, se non consideriamo l’Alaska, dopo gli anni cinquanta il lupo sopravviveva unicamente in una piccola area del Minnesota al confine con il Canada.
In Italia il lupo, almeno fino al secolo scorso, è sempre stato abbondante in tutta la penisola e in Sicilia (Cagnolaro et al., 1974a). A partire dalla metà dell’800 tuttavia la caccia al lupo ha raggiunto un’efficienza tale da mettere in discussione la sua stessa sopravvivenza. Già negli anni venti, la specie era ormai scomparsa dalle Alpi piemontesi, nel dopoguerra si estinse in Sicilia (Cagnolaro et al., 1974a) e il suo areale appenninico andò via via restringendosi sempre più a sud:, l’uso di bocconi avvelenati negli anni 60-70 contribuì a limitarne la presenza a poche zone dell’Appennino centromeridionale, dove è sopravvissuto dovendo comunque subire una spietata persecuzione (si stima che nel solo decennio 1960-70 siano stati abbattuti almeno 4-500 lupi) cui si sono sommate le conseguenze di profonde modificazioni ambientali che hanno interessato vasti comprensori montani. La popolazione italiana di lupo ha raggiunto il minimo storico alla fine degli anni sessanta: Boitani e Zimen (1975) nel 1973 stimarono la popolazione di lupi in Italia intorno alle cento unità distribuite in 10 zone dell’Appennino, a partire dai monti Sibillini e della Tolfa fino ad arrivare alla Sila, e considerando la specie scomparsa a nord di tale areale. Cagnolaro et al. (1974b) ritenevano che la specie fosse presente anche più a nord, nell’alta Lunigiana (probabilmente a causa di fenomeni di erratismo), nelle foreste Casentinesi, nella parte occidentale delle colline Metallifere ed a sud del Monte Amiata. In ogni caso si rese evidente che per salvaguardare la specie in Italia erano necessarie urgenti misure di carattere legislativo; nel luglio del 1971, infatti, un decreto ministeriale proibì la caccia al Lupo su tutto il territorio nazionale fino al dicembre del 1973; il decreto fu poi rinnovato per altri tre anni ed infine nel 1976 il Lupo venne riconosciuto dalla legislazione italiana come specie protetta. La totale protezione del lupo e di altri predatori minacciati di estinzione, assieme alla messa al bando di trappole, lacci, esche avvelenate ecc., entrata a far parte integrante della legge quadro sulla protezione della fauna n. 968 del 1977, ha ulteriormente contribuito a salvare il lupo dall’estinzione, che sembrava ormai prossima anche in Italia. A partire anzi da quel momento il lupo, anche grazie alla aumentata disponibilità di prede naturali come il cinghiale e il capriolo, si è reso protagonista di un processo di espansione numerica e geografica, particolarmente evidente nell’Italia settentrionale, che ha portato alla sua ricomparsa in comprensori dai quali mancava da decenni. Nei primi anni ‘80, l’espansione diventa evidente sia al centro-sud (Boscagli, 1985), dove l’ampliamento dell’areale venne stimato da Boitani (1986) pari al 50% del decennio precedente, sia a nord, sull’Appennino tosco-romagnolo e ligure, dove, a partire dagli anni ‘85-’86, si verifica regolarmente la riproduzione (Matteucci, 1987; Meriggi et al. , 1991; Meriggi et al., 1993). E’ importante sottolineare che parlando di distribuzione occorre distinguere tra aree in cui è stata rilevata o è altamente probabile una attività riproduttiva, aree di semplice transito o presenza più o meno regolare, ma dove comunque non è stata rilevata la riproduzione, ed aree di potenziale colonizzazione. Le prime sono di gran lunga le più importanti nella economia di una popolazione in quanto rappresentano i centri motori dai quali i giovani hanno la possibilità di irradiarsi verso nuove aree e formare a loro volta nuclei familiari. Le seconde sono importanti soprattutto per facilitare l’interpretazione di dati quali avvistamenti, tracce di predazione a bestiame che compaiano più o meno improvvisamente in aree anche considerate estranee alla presenza del lupo. Infine le terze comprendono zone che per le caratteristiche ecologiche e di antropizzazione possono essere particolarmente adatte alla colonizzazione e all’insediamento di nuove unità riproduttive.
Nel 1985 la popolazione venne stimata attorno alle 180-200 unità (Boscagli, 1985), sebbene tale stima non tenesse conto dei territori al di sopra dell’Appennino forlivese. Le stime attuali indicano in 400 (±150) il numero degli individui distribuiti lungo la dorsale appenninica, dall’Aspromonte sino alle Alpi Marittime francesi, dove una piccola popolazione si è insediata nel Parco nazionale del Mercantour (Adam, 1994). E’ interessante osservare che le cartine di distribuzione nell’Appennino settentrionale elaborate da Cagnolaro et al. (1974a) e riferite agli anni dal 1950 al 1957 mostrano un notevole grado di sovrapposizione con quelle di distribuzione più recenti, a indicazione del fatto che vi sono probabilmente delle caratteristiche ambientali che vengono selezionate dal Lupo nella scelta di un territorio da colonizzare. A questo proposito risulta abbastanza curioso il fatto che nel parco del Mercantour sulle Alpi Marittime, il primo avvistamento recente del Lupo sia avvenuto attorno a Le Villars, una frazione di Saint Martin-Vesubie, famosa per essere stata, nell’800, il teatro dell’uccisione dell’ultimo Lupo presente sul territorio francese. Così come forse non è un caso che un sentiero che conduce proprio in questa zona si chiami "La Louboniere", a memoria del corpo speciale di cacciatori, "Louveterie", creato dal re di Francia per porre fine al "flagello Lupo".
In Emilia-Romagna l’alto Appennino forlivese è l’area regionale nella quale la presenza del lupo è stata storicamente segnalata con maggiore regolarità. Zangheri (1957) afferma che: "il lupo fa frequenti incursioni nella stagione invernale provenendo dall’ Appennino centro-meridionale.", anche se la totale assenza di studi sull’argomento fa ritenere questa versione un po’ troppo semplicistica. Molto più probabilmente l’area montuosa a cavallo tra le Province di Arezzo, Forlì e Pesaro ha ospitato la specie in modo costante e anche durante gli anni ‘60 e inizio ‘70, periodo in cui le segnalazioni sembrano diminuire, è assai probabile che il lupo fosse presente seppur con densità molto basse, trovando successivamente condizioni favorevoli ad una espansione a seguito del notevole aumento degli Ungulati e del Capriolo in particolare. In ogni caso dopo l’uccisione di un esemplare nel 1937 nei pressi di Poggio alla Lastra (l’esemplare è conservato nel museo Zangheri della Romagna, a Verona) e le numerose segnalazioni di avvistamenti durante gli anni ‘50 (Zangheri 1957), queste ultime sembrano diminuire durante gli anni ‘60, tuttavia secondo Cagnolaro et al. (1974b) nel periodo 1960-1974 sarebbero stati uccisi 17 lupi in provincia di Forlì. Di avvistamenti e uccisioni di lupi si torna a parlare con una certa insistenza durante gli anni ‘70 ma a queste voci nessuno dà, erroneamente, molto credito. Il lupo torna però prepotentemente alla ribalta nel 1979 quando, nei pressi di Premilcuore, viene rinvenuta la carcassa di un individuo che ad un accurato esame risulta essere un maschio adulto di lupo appenninico ucciso con tutta probabilità da una fucilata (Gotti e Silvestri, 1985). A partire da quella data inizia un vero e proprio stillicidio di uccisioni in varie località delle province di Forlì, Arezzo e Pesaro e in pratica non passa anno senza che almeno una carcassa venga recuperata in questa area (Matteucci et al., 1986). Il numero di individui uccisi, così come la continuità nel tempo dei rinvenimenti, non può evidentemente essere giustificata sulla base di semplici erratismi, ma lascia supporre la presenza di nuclei riproduttivi. L’ipotesi viene in effetti ampiamente confermata in più occasioni: nel 1985 viene scoperta una tana nei pressi di Badia Tedalda (PS), i cuccioli vengono sottratti e probabilmente uccisi, tranne uno che viene sequestrato. L’anno successivo due nuclei vengono localizzati nell’area delle Foreste Casentinesi. Nel giugno del 1987, sempre nella stessa area, viene individuata una tana occupata.
A partire dall’inizio degli anni ‘80 la presenza del lupo viene accertata anche in altre località dell’Appennino tosco-emiliano: nel 1983 tre lupi (1 maschio e 2 femmine) vengono uccisi nel corso di una battuta nell’alto Appennino pistoiese, non lontano dal confine con la provincia di Modena. Tutti e tre gli esemplari sono tuttora conservati e visibili (2 presso il parco naturale dell’Orecchiella e 1 presso il Centro di Scienze Naturali di Prato); l’anno successivo una femmina viene fotografata in un complesso forestale demaniale a cavallo tra le province di Bologna e Pistoia (Ciani, 1988); nel 1986 viene accertata la presenza di alcuni individui nell’area di crinale tra le province di Reggio Emilia e Lucca (oss. pers.); nel 1988 viene segnalata l’uccisione di una femmina di lupo sul massiccio del Corno alle Scale in provincia di Bologna.
Nell’estrema porzione nord-occidentale dell’Appennino emiliano, nella zona compresa tra le province di Piacenza, Alessandria, Genova e Pavia il Lupo è stato presente almeno fino alla seconda metà degli anni ‘40; risale infatti al 1946 l’ultima uccisione documentata a Santo Stefano d’Aveto (GE) (Cagnolaro et al., 1974a). Questo vasto comprensorio montano è stato oggetto dal 1988 di una ricerca specifica coordinata dal Dipartimento di Biologia Animale dell’Università di Pavia. Nell’area sono stati recuperati dal 1985 ad oggi le carcasse di sei individui uccisi illegalmente, ma testimonianze attendibili parlano di un numero reale di individui uccisi superiore a dieci. Si tratta in particolare di tre femmine giovani, dell’età stimata di 6-8 mesi, di una femmina adulta e di due maschi adulti dell’età stimata di 3-4 anni. Di questi ultimi uno è stato ucciso nel 1987 in comune di Ottone (PC). L’esemplare è stato recuperato in buone condizioni e inviato all’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica per le analisi del caso. E’ risultato un lupo con caratteristiche morfologiche perfettamente assimilabili a quelle della popolazione italiana. L’esemplare presentava una evidente menomazione alla zampa anteriore sinistra, con amputazione totale del piede ad opera probabilmente di una tagliola. Nel 1990 due esemplari adulti (un maschio e una femmina ) sono stati rinvenuti morti strangolati in lacci, in provincia di Genova presso il confine con quella di Piacenza. Sulla base dei dati disponibili si può affermare con certezza che il lupo è stato presente in modo regolare nell’area dell’alta val Trebbia e zone limitrofe fino al 1993, inoltre il rinvenimento di almeno tre individui di età inferiore ad un anno e in anni diversi, indica chiaramente che in questo comprensorio sono avvenute riproduzioni a partire almeno dal 1985. Attualmente non esistono dati comprovanti la presenza del Lupo in provincia di Piacenza. I risultati ottenuti in questa ricerca confermano la scomparsa di una popolazione stabile di Lupi nella provincia di Piacenza, causata probabilmente da una netta diminuzione negli ultimi anni del numero di capi al pascolo brado sul territorio e dall'abbandono della consuetudine di gestire il ciclo vacca-vitello sul pascolo. Non a caso l’Appennino piacentino rappresenta una sorta di "buco nero" per ciò che concerne la diffusione dei Cervidi in ambito regionale. Nell’Appennino parmense è invece presente un piccolo nucleo composto probabilmente da un gruppo familiare, mentre nel Reggiano si è riscontrata la presenza di almeno tre nuclei stabili nell’area facente capo al Parco del Gigante e a quello dell’Orecchiella. Esemplari provenienti dal Reggiano compiono frequentemente incursioni nel comune di Frassinoro (Modena) e sono probabilmente responsabili delle predazioni sul bestiame al pascolo brado in questa zona. Gli avvistamenti nel comune di Fanano (Modena) e Lizzano in Belvedere (Bologna) sono invece attribuibili ad individui provenienti dal versante toscano dove si ritiene vivano alcuni nuclei nella Foresta del Teso (Pistoia); mentre quelli nell’alta val di Savena (Bologna) sembra siano dovuti ad escursioni di esemplari provenienti dal Mugello. Le province di Modena e Bologna sembrano quindi frequentate solo da individui erratici provenienti da branchi in territori adiacenti o da giovani in dispersione. La situazione nelle due province è comunque differente per una diversa disponibilità di prede selvatiche e per un diverso sfruttamento del territorio. Nell’Appennino Modenese infatti sebbene siano abbondanti le popolazioni di ungulati domestici, le popolazioni di ungulati selvatici sono ancora relativamente scarse e distribuite in maniera non uniforme sul territorio montano; a questo fattore negativo si deve aggiungere il disturbo dovuto allo sfruttamento turistico per gli impianti sciistici nei comuni di Pievepelago, Riolunato, Sestola e Fanano. Nella provincia di Bologna le popolazioni di ungulati selvatici sono più abbondanti e, sebbene il territorio sia molto frequentato dall’uomo, non si è raggiunto un impatto antropico massiccio come nella provincia di Modena.
Il nucleo regionale più consistente si trova probabilmente nell’Appennino Tosco-Romagnolo, lungo lo spartiacque tra le province di Forlì-Cesena, Arezzo, Firenze e Pesaro-Urbino. La distribuzione regionale del lupo è illustrata nella figura 14-I.


Aspetti della biologia del Lupo rilevanti ai fini gestionali


Ecologia e selezione dell’habitat
E’ già stata sottolineata la grande plasticità ecologica del Lupo che ha permesso a questo Carnivoro di adattarsi a molteplici condizioni ambientali: dalle zone artiche a quelle aride o semiaride della Penisola Arabica, del Messico, di Israele o dell’India centro-settentrionale passando attraverso tutti i biomi dell’Emisfero Boreale, fatta eccezione per le foreste umide dell’Asia sud-orientale. Appare difficile, quindi, individuare un denominatore comune di tipo climatico, fisico o vegetazionale; al contrario si possono mettere in evidenza altri aspetti, come l’abbondanza di prede e la disponibilità di una sorta di "spazio vitale" per la specie, cioè un’area avente caratteristiche adatte per la riproduzione, l’allevamento dei cuccioli ed ogni altra forma di interazione sociale. Senza dubbio vi sono caratteristiche ambientali, o insiemi di caratteristiche (scenari) che vengono selezionate dalla specie ma che sono di difficile identificazione. Non si dimentichi inoltre, che, per un animale con una struttura rigidamente gerarchica come il Lupo, diverse situazioni sociali possono portare ad un diverso utilizzo dei vari scenari ambientali. Per semplicità divideremo la trattazione di questi aspetti dell’ecologia del Lupo in capitoli differenti: a) Struttura sociale, dispersione e spazio vitale; b) Ecologia alimentare; c)Scenari ambientali e selezione dell'habitat.


Struttura sociale, dispersione e spazio vitale
Il Lupo ha una struttura sociale molto complessa: il branco è formato in genere da una coppia di riproduttori, dai cuccioli e da alcuni individui giovani o di rango inferiore (Mech, 1970), per un totale di circa 5-10 individui nelle zone più popolate (con casi estremi di oltre 30 individui; Mech, 1970; in stampa). All’interno del gruppo esiste una stretta gerarchia che permette di identificare almeno due livelli: a e b); vi sono di solito due individui a (un maschio e una femmina) e un vario numero di b, tra i quali vi possono essere alcuni adulti oppure dei giovani o degli esemplari deboli o malati. I cuccioli sembrano non essere inquadrati nella gerarchia del branco, ma piuttosto instaurano una loro scala di dominanza all’interno della cucciolata. I subordinati partecipano alla caccia, all’allevamento dei cuccioli e al mantenimento del territorio ma devono sempre sottostare alle esigenze della coppia a. In genere, in un branco, solo la coppia a si riproduce (Mech, 1970; Boscagli, 1985), gli altri membri del gruppo non possono accoppiarsi se non in casi particolari e, nell’eventualità che questo accada, la gravidanza non viene quasi mai portata a termine.
La funzione sociale di tale meccanismo non è così evidente: la probabilità di successo nell’allevamento dei cuccioli non risulta maggiore nei branchi in cui sono presenti degli "aiutanti"; anche la presenza di più individui durante la caccia non sembra rendere effettivamente più efficiente il branco, sebbene la priorità di accesso alle prede della coppia a , faccia si che questa riceva un apporto energetico e proteico adeguato alle necessità riproduttive (Harrington e Mech, 1982b; Harrington et al., 1983; Peterson et al., 1984). Secondo Packard (in stampa), la presenza di aiutanti in un branco farebbe aumentare la "fitness" inclusiva della coppia a , grazie all’aiuto che questa avrebbe nella difesa del territorio, nell’allevamento e nell’educazione dei cuccioli. Peraltro non sempre è la coppia a ad ottenere la maggior parte dei benefici; al contrario secondo Harrington e Mech (1982) e Messier (1985) il vantaggio è in realtà maggiore per i subordinati che, grazie alla coppia a , riescono a procurarsi più facilmente le prede e possono sperare di riprodursi subentrando ad uno o a entrambi gli individui a.
Come già` accennato, la specie e` spiccatamente territoriale e difende attivamente le proprie risorse; quando i giovani raggiungono l’età riproduttiva (22-24 mesi) lasciano il branco per cercare un nuovo territorio dove potersi a loro volta riprodurre (Mech, 1970). Il significato evolutivo della dispersione va ricercato nel fatto che diminuisce i rischi di consanguineità e limita il rischio di un sovrautilizzo delle risorse; inoltre promuove l’espansione dell’areale della specie facilitando la colonizzazione di nuove aree e lo sfruttamento di nuove risorse. La dispersione è un processo graduale e dinamico ed è in genere preceduto da un certo numero di allontanamenti dal territorio di origine; l’individuo che si disperde si comporta come se provasse un qualche timore ad allontanarsi dalla zona conosciuta (Messier, 1985) ed esplora gradualmente le aree limitrofe alla propria. I fattori che determinano la dispersione nel Lupo sono principalmente due: distribuzione e abbondanza delle risorse alimentari e competizione per lo spazio vitale (Messier, 1985). La competizione per lo spazio implica automaticamente una selezione degli individui per età e per sesso. Messier (1985) ha osservato che l’allontanamento dal territorio d’origine e la vita solitaria sono fortemente correlate con l’età dell’animale: i giovani hanno una tendenza maggiore a compiere spostamenti extraterritoriali (Fuller, 1989). Tale tendenza è inoltre accentuata da una bassa densità di prede: sia i giovani sia gli adulti, in condizioni di scarsità di prede, compiono un maggior numero di spostamenti, sebbene, come ha osservato Messier (1985), questi movimenti non possano essere considerati di dispersione quanto piuttosto come la risposta a una impellente necessità di reperire il cibo. Lo stesso Autore ha inoltre evidenziato una correlazione tra il sesso e i movimenti extraterritoriali: le femmine si allontanano più dei maschi, soprattutto nei periodi di scarsità di cibo, quando cioè il loro rango all’interno del branco diminuisce a causa di condizioni di stress alimentare (Zimen, 1976). Sebbene non tutti gli autori siano concordi (Fritts e Mech, 1981), il numero di allontanamenti dal branco, temporanei o definitivi che siano, aumentano durante la stagione riproduttiva, da dicembre ad aprile (Peterson et al., 1984; Messier, 1985; Fuller, 1989), forse a causa dell’elevato stress sociale a cui sono sottoposti in questo periodo i subordinati. Secondo alcuni autori il Lupo usa la sua unità sociale o area di origine come una base dalla quale tentare, attraverso escursioni extraterritoriali, di trovare un branco confinante che lo accetti (Fritts e Mech, 1981) o formare il nucleo riproduttivo di un nuovo branco.
Riassumendo, possiamo dire che la dispersione, intesa come processo graduale e dinamico, è determinata da un complesso di fattori come l’età (juv > adulti), il sesso (femmine > maschi), la posizione gerarchica (sub. > dom.) e l’abbondanza di prede (bassa dens. > alta dens. in concomitanza con un’alta densità di lupi). L’esistenza di un comportamento territoriale non ha solo la funzione di difesa delle risorse alimentari, ma anche delle aree che vengono utilizzate per le tane e per le interazioni sociali (Murie, 1944).
Per le tane vengono generalmente scelti anfratti rocciosi o tane di altri animali (Jordan et al., 1967); esse sono generalmente esposte a sud, in vicinanza di una sorgente o riserva di acqua, situate in zone poco accessibili all’uomo e spesso in posizione che permetta il controllo dell’area circostante (Mech, 1970).
I punti di incontro ("rendezvous sites") sono occupati dal branco specialmente nel periodo successivo all’abbandono della tana, anch’essi sono situati in vicinanza di riserve d’acqua (Joslin, 1967), spesso in piccole radure all’interno di boschi esposti a sud. Si trovano generalmente non lontano dalla tana e vengono periodicamente abbandonati e sostituiti con altri a breve distanza. E’ nei punti di incontro che avviene la maggior parte delle interazioni sociali e si instaurano o si consolidano le gerarchie ed i legami affettivi. La riunione del branco in questi siti è quindi un momento molto importante per la coesione del gruppo (Mech, 1970; Zimen, 1976). Sia le tane che i punti di incontro richiedono ambienti poco disturbati dall’uomo, pena l’abbandono e la ricerca di un nuovo sito.
Una struttura sociale così complessa necessita quindi di un ambiente dove poter esprimere tale complessità, da qui l’importanza della disponibilità di aree che offrano caratteristiche adeguate. E’ importante sottolineare che tutti i dati e le informazioni sopra citati, eccetto poche eccezioni, si riferiscono a studi condotti in Nord America, mentre lavori analoghi non sono disponibili per l’areale europeo a causa della maggiore elusività dei lupi che vivono in tale contesto, delle condizioni ambientali meno favorevoli e della bassa densità di popolazione. La limitatezza delle risorse (sia prede naturali di grosse dimensioni, sia disponibilità di spazio) è probabilmente all’origine del fatto che in Italia i Lupi siano raggruppati in branchi di pochi individui (3-5; Boscagli, 1985) e che il fenomeno di dispersione sia esasperato in quanto rappresenta, forse, l’unica strategia in grado di garantire la sopravvivenza della specie. Gli spostamenti dei branchi o dei singoli individui sono da mettersi in relazione, oltre che con i fattori prima ricordati, anche con le dimensioni del territorio di ogni gruppo: un individuo che si disperde si muove alla ricerca di un territorio che gli garantisca la sopravvivenza e la possibilità di riprodursi: se l’ambiente è molto antropizzato e non vi è abbondanza di prede, è logico supporre che gli spostamenti avverranno su distanze maggiori in quanto un habitat povero di risorse è più facilmente saturabile. A questo si aggiunga che, in una popolazione come quella italiana, sottoposta ad un prelievo illegale di circa il 30 % (Boitani, in stampa), gli animali più vulnerabili sono quelli più mobili (i giovani) o più coinvolti nel controllo del territorio (gli individui a ); questo comporta una rottura della gerarchia all’interno del branco e la conseguente scomparsa di quelle inibizioni che impedivano agli individui b di riprodursi (Pulliainen, 1980; Packard, 1994). Si vengono così a formare molti piccoli nuclei riproduttivi e si ha un forte aumento demografico; il fenomeno della dispersione si esaspera ulteriormente in seguito alla saturazione dell’habitat e determina un rapido processo di colonizzazione di nuove aree. Il fatto che la maggior parte degli individui uccisi sia costituita da individui giovani è da considerarsi una conseguenza di questo fenomeno e del fatto che questi esemplari sono meno esperti e costretti all’esplorazione di territori a loro sconosciuti.


Ecologia alimentare
Un gran numero di studi, condotti soprattutto nel Nord America, hanno descritto le abitudini alimentari del lupo (Thompson, 1952; Pulliainen, 1965; Mech, 1966a; Mech, 1977; Mech e Karns, 1977; Fritts e Mech, 1981; Bergerud et al., 1983; Bergerud e Ballard, 1988; Boutin, 1992; Thurber e Peterson, 1993). Nonostante una spiccata predilezione per gli ungulati, il Lupo non disdegna anche altri tipi di prede, come Lagomorfi, Micromammiferi e altri vertebrati (Mech, 1966b; Fritts e Mech, 1981; Fuller, 1989; Meriggi et al., 1991; Jhala, 1993). In quasi tutto l’areale di distribuzione del Lupo, gli ungulati sono in numero tale da sostenerne la popolazione, fanno eccezione alcune zone del bacino del Mediterraneo come Italia e Spagna. In queste zone, dal dopoguerra alla metà degli anni ‘70, le popolazioni di ungulati selvatici hanno subito una drastica diminuzione in seguito ad una prolungata pressione venatoria ed al massiccio sfruttamento del territorio; questi territori sono stati usati tradizionalmente per l’allevamento di bestiame domestico, che in molte zone montane ha rappresentato l’attività economica prevalente. In queste condizioni il Lupo si è progressivamente adattato all’utilizzo del bestiame e di altre risorse alimentari, come i frutti (Meriggi et al.; 1991) ed i rifiuti urbani (Boitani, 1986; Reig et al., 1985; Salvador e Abad, 1987). Numerosi studi effettuati nell’Appennino centrale (Zimen e Boitani, 1975; Boitani, 1986; Patalano e Lovari 1993) hanno attribuito alle discariche un ruolo importante per la sopravvivenza del Lupo. Tale ruolo appare invece assai meno determinante nell’Appennino settentrionale dove i rifiuti o non compaiono affatto nella dieta del Lupo, o ne costituiscono solo una minima parte (Matteucci, 1987; Matteucci et al., 1994; Mattioli et al., 1995; Meriggi et al., 1996; Meriggi e Lovari, 1997). Già in precedenza era stato dimostrato come ambienti molto antropizzati o specializzati potessero indurre marcate modificazioni nelle abitudini alimentari del Lupo (Mech, 1977; Guitan et al., 1979). In assenza di prede selvatiche aumenta la pressione predatoria esercitata dal Lupo sul bestiame domestico, nonostante la protezione e il controllo da parte dell’uomo anche con l’uso di cani da pastore, causando spesso un aumento dei casi di uccisione illegale. Nell’ultimo decennio, almeno nell’Italia settentrionale, si è assistito a un notevole incremento della popolazione di ungulati selvatici e si sono create le condizioni per il ritorno del Lupo ad un ruolo ecologico più naturale. Recenti studi sull’alimentazione del lupo nell’Appennino settentrionale (Meriggi et al., 1993) hanno evidenziato che le predazioni su ungulati domestici e selvatici sono inversamente correlate, dato confermato anche per altre aree mediterranee (Meriggi e Lovari, 1997). In zone con alte densità di ungulati selvatici la predazione su ungulati domestici è risultata mediamente bassa o trascurabile (Matteucci et al., 1986; Matteucci, 1992; Matteucci et al., 1994; Mattioli et al., 1996).


Scenari ambientali e selezione dell’habitat
Come già sottolineato, il Lupo è scarsamente influenzato da caratteristiche ambientali specifiche che non siano la disponibilità di prede, tuttavia localmente una popolazione di Lupi può manifestare selettività per determinati aspetti vegetazionali, fisici o climatici, così come, all’interno di un’area di presenza stabile, esistono senza dubbio ambienti frequentati selettivamente dal branco o da singoli individui. Come si è già visto i siti di riproduzione e di ritrovo presentano caratteristiche particolari, così come i territori di caccia, che sono ben identificabili d’inverno (Huggard, 1993). L’uso dell’habitat da parte del Lupo dipende in larga parte dal tipo di preda o risorsa alimentare di cui si nutre; se si eccettuano i siti di riproduzione e di ritrovo, il Lupo frequenta gli stessi ambienti frequentati dalle sue prede (Huggard, 1993) o quegli ambienti dove può reperire altre fonti di cibo, come rifiuti o vegetali. Meriggi et al.(1991) hanno osservato nell’Appennino settentrionale che nella dieta del Lupo compaiono in grande percentuale (fino al 39 % del volume fecale) i vegetali, in particolare la Rosa canina; tale comparsa è particolarmente evidente nella stagione invernale e in quella primaverile e coincide con una selezione per gli ambienti cespugliati proprio in quelle stagioni, mentre in estate, quando la dieta comprende soprattutto bestiame, il Lupo seleziona i pascoli dove è più facile trovare, appunto, ovini e bovini al pascolo.


Elaborazione del modello predittivo
L’area interessata dalla raccolta dati e successivamente alla applicazione del modello comprende i territori regionali con altitudine media superiore a 700 m s.l.m. Diversamente da tutte le altre specie, è stata utilizzata come unità di campionamento (UCL) la cella corrispondente alle tavole della Carta Tecnica Regionale in scala 1:10.000, in quanto di dimensioni più rispondenti alle caratteristiche ecologiche e alle problematiche gestionali della specie. Il lavoro si è posto come obiettivo la definizione della presenza del lupo nel territorio regionale suddivisa in quattro classi:
0- Assenza: nessuna informazione (all’interno dell’UCL non sono mai stati rinvenuti segni di presenza).
1- Presenza irregolare: quando si siano riscontrate evidenze della presenza solo in alcuni anni o in tutti gli anni ma in non più di due stagioni.
2- Presenza regolare senza riproduzione: evidenze di presenza in tutti gli anni ed in almeno tre stagioni.
3- Presenza regolare con riproduzione: evidenze di presenza in tutti gli anni ed in almeno tre stagioni, concomitanti ad evidenze di avvenute riproduzioni.
A questo scopo si è provveduto, nelle UCL interessate, alla raccolta di tutte le informazioni e i dati disponibili (bibliografia, segnalazioni attendibili ecc.) relativamente alla presenza del lupo. Segnalazioni di avvistamenti sono state vagliate prima di essere considerate come affidabili, di norma considerando attendibile la segnalazione quando questa era confermata da altre evidenze di presenza. Si è proceduto inoltre alla raccolta, presso i servizi veterinari delle U.S.L. competenti territorialmente e le Amministrazioni Comunali e Provinciali, di tutti i dati disponibili sulle predazioni a carico del bestiame domestico, analizzando criticamente, dove possibile, i verbali di "Sequestri e Distruzione di Carni e Visceri", stilati dai Veterinari delle U.S.L. in occasione dell’accertamento di eventi di predazione sul patrimonio zootecnico e nei quali, fra l’altro, viene generalmente indicato se il danno è stato attribuito a cani vaganti o a lupi, anche se è noto peraltro che, a meno dell’osservazione diretta dell’attacco da parte di testimoni o di altri elementi probanti, non è possibile attribuire con certezza la responsabilità a lupi o cani solo sulla base delle caratteristiche dell’attacco. Non sono state prese in considerazione le denunce riguardanti pollame o altri animali da cortile in quanto è lecito ritenere che possano essere in gran parte attribuibili a piccoli carnivori (volpi, faine ecc.). La raccolta diretta dei dati relativi alla presenza della specie è stata condotta tramite il metodo dei transetti casuali (Meriggi, 1989; Meriggi et al., 1991) con cadenza stagionale. Sono stati raccolti gli escrementi di Canidi che fossero superiori a 2.5 cm di diametro (Thompson, 1952; Fritts e Mech, 1981; Jhala, 1993) e fossero concomitanti a fenomeni di predazione accertati (Burkholder, 1959; Mech, 1970; Jhala, 1993) sia su bestiame domestico sia su Ungulati selvatici e con altre indicazioni certe della presenza del Lupo, come avvistamenti o ritrovamenti di esemplari morti. Eventuali ritrovamenti ossei sono stati misurati e confrontati con dati presenti in bibliografia (Jolicoeur, 1959; Lawrence e Bossert, 1967; Mech, 1970; Toschi, 1976; Okarma e Buchalczyk, 1993). Dati sulla consistenza locale della popolazione sono stati raccolti attraverso l’osservazione delle tracce sulla neve, nei mesi invernali (Bjarvall e Isakson, 1982; Bergerud et al., 1983; Priklonsky, 1986), e con la tecnica del Wolf-Howling nel periodo Giugno-Settembre (Boscagli, 1982; Harrington e Mech, 1982a; Fuller e Sampson, 1987). Quest’ultima tecnica è stata utilizzata anche per accertare la riproduzione (risposta di cuccioli; Theberge e Falls, 1967; Joslin, 1967; Harrington e Mech, 1982a), cui si sono aggiunti rilevamenti relativi alla uccisione o cattura di esemplari in età molto giovane, cioè prima del momento in cui gli animali cominciano la dispersione (Mech, 1970; Messier, 1985), oppure di femmine in avanzato stato di gravidanza o in chiare condizioni post-parto, ed infine al ritrovamento di tane occupate recentemente.

Le analisi statistiche sono state condotte sulle quattro classi di presenza per il Lupo accorpandole successivamente in modo da creare differenti raggruppamenti, dei quali solo alcuni sono stati utilizzati per la formulazione dei modelli di vocazione:
Raggr A = 4 Classi di presenza ( 0, 1, 2, 3)
Raggr B = 2 Classi di presenza (0 e 1= 1+2+3)
Raggr C = 2 Classi di presenza (1= 0+1 e 2= 2+3)
Raggr D = 3 Classi di presenza (1= 0+1, 2, 3)
Raggr E = 3 Classi di presenza (0, 1 e 2= 2+3)
Raggr F = 2 Classi di presenza (0= 0+1+2 e 3)
La scelta dei raggruppamenti dipende soprattutto dall’interesse specifico in relazione alle finalità del modello: per scopi gestionali è preferibile ottimizzare l’efficienza nella classificazione di zone di assenza e presenza, mentre per scopi di ricerca scientifica può essere più interessante ad esempio identificare le componenti ecologiche che caratterizzano un’area riproduttiva.
E’ stata condotta l’analisi di funzione discriminante con procedura stepwise sul raggruppamento C, cioè aree idonee (n= 28) o non (n= 37) alla presenza regolare della specie. Nella funzione sono state forzate 4 variabili previa selezione tramite le analisi preliminari sia univariate sia multivariate (Tab. 14-I). Le variabili sono: il perimetro degli arbusteti, il perimetro dei prati e dei pascoli, l’indice di diversità di Shannon complessivo e il disturbo antropico. I dati relativi alle componenti faunistiche (ungulati selvatici e domestici) sono stati volutamente esclusi dall’analisi perchè si voleva fornire una valutazione riferita alla potenzialità dell’ecosistema che prescindesse, ad esempio, da situazioni di scarsità di popolazioni di prede selvatiche nonostante che il territorio fosse idoneo a sostenere abbondanti popolazioni di ungulati selvatici ma per motivi di prelievo venatorio fosse attualmente povero di tale risorsa. In questo modo porzioni di territorio con popolazioni scarse o assenti di alcune specie di prede selvatiche (es. Capriolo in provincia di Piacenza) non dipendenti dalla reale capacità del territorio nel sostenere tali popolazioni, hanno potuto essere valutate senza tenere di conto di eventuali anomalie dovute al prelievo venatorio o a differenti strategie di gestione degli ungulati selvatici. Se nella formulazione dei modelli si fossero utilizzate anche le variabili relative alle classi di abbondanza degli ungulati selvatici, si sarebbero sottostimate le idoneità di tali aree e sovrastimate quelle di altre aree in cui le popolazioni di ungulati selvatici avevano raggiunto un equilibrio. Il modello (Tab. 14-I) ha classificato correttamente il 75,5% dei casi di non idoneità alla presenza regolare della specie, il 73,5% di quelli di idoneità ed il 74.62% dei casi totali. La funzione spiega il 100% della variabilità dei dati e il test del chi-quadro è risultato altamente significativo (p= 0). Il grado di vocazione del territorio è stato definito utilizzando tre livelli, corrispondenti ai rispettivi valori di probabilità di appartenenza della cella al gruppo 2:

1) Vocazione nulla o molto bassa
(= Elevata probabilità di assenza o presenza irregolare della specie): probabilità <50%

2) Vocazione media
(= Elevata probabilità di presenza regolare della specie): probabilità 50-95%

3) Vocazione alta
(= Elevata probabilità di presenza regolare e riproduzione della specie): probabilità >95%

Tab. 14-I - Modello per il Lupo a due classi, idoneità "contro idoneità".
Variabile Coefficienti standardizzati della Funzione Discriminante
Colt_per -0.38
Prapasc 0.61
Fraar312 0.08
Shboscor 0.57
Totbos 0.30
Cesparb 0.20
Zon_impr -0.23
Tess_urb -0.51
Svilstra -0.38
Altmax 0.03

Coefficienti di correlazione tra le variabili
e le Funzioni Discrirminanti

Totbos 0.51
Colt_per -0.43
Tess_urb -0.43
Shboscor 0.36
Svilstra -0.27
Fraar312 0.22
Prapasc 0.19
Zon_impr -0.11
Cesparb -0.07
Altmax 0.02
Diagnostiche
Autovalore 0.60
Variabilità spiegata 100
Correlazione Canonica 0.61
c2 64.16
Livello di significatività 0.000


Risultati
Il risultato della simulazione del modello di vocazione ambientale sul territorio regionale è illustrato nella figura 15-I.
Complessivamente sono state individuate 52 cellette, pari a una superficie di 193.400 ha., che presentano elevate potenzialità ambientali per il lupo. Di queste, 19, pari a una superficie di 70.680 ha., presentano le migliori caratteristiche per la riproduzione. I territori a massima vocazionalità sono localizzati principalmente nell’Appennino Tosco-Romagnolo e lungo la dorsale Appenninica tra le province di Modena e Reggio-Emilia, dove nel complesso si trovano 14 delle 19 cellette a massima probabilità di riproduzione (73,7%) e 13 delle 33 cellette a elevata probabilità di presenza regolare della specie (39,4%), per un totale di 27 cellette (51,9%). Buone vocazionalità si evidenziano anche nell’Appennino piacentino e, in misura minore, in quello parmense. La porzione appenninica di minore interesse sembra essere quella compresa tra le province di Bologna e Ravenna. Dal punto di vista ecologico il territorio che probabilmente offre le migliori condizioni complessive è quello posto a cavallo dello spartiacque Tosco-Romagnolo, soprattutto per la presenza di un importante popolamento di Ungulati che comprende quattro specie (cervo, daino, capriolo, cinghiale), permettendo al lupo di occupare pienamente il ruolo di predatore ai vertici delle catene trofiche. Non va dimenticato infatti che nella quasi totalità dei casi, soprattutto nell’Italia centro-meridionale, il lupo è stato costretto a trasformarsi in consumatore di rifiuti e in parte in predatore di bestiame in seguito alla distruzione pressochè totale delle sue prede naturali. Non a caso nel Parco Nazionale d’Abruzzo si è proceduto da tempo alla reintroduzione di cervi e caprioli proprio per ricostituire una situazione di massima naturalità.


Aspetti gestionali


Danni alla zootecnia
Sono stati raccolti e analizzati i dati ufficiali riguardanti le predazioni sul bestiame domestico avvenute nei territori dei comuni interessati dalla presenza del lupo nell’arco di tempo che va dal 13/2/94 al 11/3/96. Allevamenti bradi di Bovini ed Ovini sono presenti su tutto il territorio ad eccezione della provincia di Piacenza (dove gli ultimi pascoli di questo tipo sono stati sfruttati per questo tipo di allevamento nel 1993), mentre allevamenti di Equini sono assenti nelle province di Bologna, Piacenza e Reggio Emilia e scarsamente rappresentati in quelle di Modena e Parma. Gli Ovini hanno, sul territorio, una distribuzione più omogenea, sia nello spazio che nel tempo: sono infatti localizzati nella zona di alto crinale ed hanno una distribuzione temporale limitata (maggio-ottobre).
Il pascolo è di tipo brado con controllo giornaliero delle bestie nelle province di Bologna e Modena, per le altre province il controllo è spesso meno assiduo. Nelle province di Reggio-Emilia e Parma, il bestiame viene sempre ricoverato durante le ore notturne e la nascita dei vitelli avviene sempre in stalla. Solo in pochi casi nelle province di Modena e Bologna i vitelli nascono sul pascolo così come gli agnelli, che rimangono in stalla per tutto il periodo dello svezzamento. Il pernottamento degli Ovini raramente è all’ aperto, più spesso il gregge viene portato all’ovile ogni sera.
Non vi sono altri grandi carnivori selvatici nell’area di studio, nè sono mai state riscontrate tracce o indizi della presenza di cani realmente rinselvatichiti; nell’Appennino Modenese sono peraltro frequenti gli avvistamenti di cani randagi o vaganti (oss. pers.) responsabili di molti casi di predazione sul bestiame domestico. In alcune zone delle province di Parma e di Reggio Emilia cani vaganti sono stati segnalati e osservati durante la ricerca e sono ritenuti responsabili di alcuni attacchi al bestiame. Casi di predazione sul bestiame da parte di cani vaganti sono stati più volte accertati anche in provincia di Forlì-Cesena.
Nelle tabelle sono evidenziate le uccisioni di capi domestici, suddivise per comune e per tipo di bestiame, accertate nel periodo 13/2/94-11/3/96. Solo per quanto riguarda la provincia di Piacenza, gli ultimi dati di predazione a carico del bestiame sono da riferirsi al 1993. Da allora manca ogni tipo di segnalazione di danni ad ungulati domestici da parte del Lupo. I comuni interessati, nel periodo 1986-1993, dalla presenza del Lupo sono stati Corte Brugnatella, Ferriere, Piozzano, ma soprattutto Ottone, nel quale si sono registrate, nel periodo in esame, predazioni su 179 capi (Tab. 15-I).

Tab. 15-I - Danni al bestiame attribuiti a canidi in provincia di Piacenza negli anni dal 1986 al 1993.
Comune 1986 1987 1988 1990 1993 Totale
Corte Brugnatella 0 0 0 0 3 3
Ferriere 0 0 0 5 0 5
Ottone 119 14 4 42 0 179
Piozzano 0 0 0 0 8 8
Totale 119 14 4 47 11 195

Le località maggiormente interessate dalle predazioni sono state Artana e M.te Zucchello nel territorio comunale di Ottone. I transetti effettuati per rilevare la presenza recente del Lupo in quest’area hanno dato tutti esito negativo, così come le interviste e le raccolte di informazioni effettuate direttamente sul territorio. Nella provincia di Parma, invece, le predazioni risultano sostanzialmente stabili nel triennio 1994-1996, con una differente localizzazione geografica delle denuncie di danno, distribuite in 6 comuni nel 1994 e solo in 3 nel 1996 (Tab. 16-I). Le località maggiormente interessate dall’ attività predatoria del Lupo sul bestiame sono state nel 1994 Campo Roberto, Case Gallina e Trevignano nei comuni di Albareto, Berceto e Palanzano. Nel 1996 le predazioni sono avvenute prevalentemente nelle località di Basilica e Riva Scalzana, nel territorio comunale di Borgotaro. I transetti percorsi nelle zone di Berceto, Borgo Val di Taro, Monchio delle Corti e Palanzano hanno permesso di ritrovare feci, tracce, impronte e altre evidenze (avvistamenti, segnalazioni ecc.) della presenza del Lupo. Per la provincia di Reggio Emilia le predazioni nel triennio considerato sono avvenute principalmente nel territorio comunale di Villaminozzo, in località Asta e Riparotonda (Tab. 17-I). I dati sulle predazioni potrebbero esser sovrastimati a causa dell'incidenza della predazione sul bestiame da parte di cani vaganti che, in alcune aree, hanno una consistenza significativa (Borgo Val di Taro e Berceto in provincia di Parma). Per quanto riguarda i 5 transetti percorsi nella provincia di Reggio Emilia, solo quelli effettuati nelle località di Villa Minozzo e Ramiseto hanno dato risultati positivi. Per la provincia di Modena i dati raccolti sono relativi al periodo dal 1988 al 1996. Durante tale arco di tempo le predazioni sono state prevalentemente a carico di Ovini nei comuni di Pievepelago e Frassinoro (Tab. 18-I). In località Piandelagotti (il Macchione) si sono verificate predazioni anche a carico di Bovini. Lungo i transetti si sono rilevate tracce di presenza del Lupo soprattutto lungo i crinali; in particolare al confine tra le province di Modena, Reggio-Emilia e Lucca al passo del Giovarello, ed al confine tra Modena, Bologna e Pistoia in località Croce Arcana/M.te Spigolino. Tali evidenze della presenza del Lupo erano però scarse e discontinue durante il periodo di studio. In provincia di Bologna il pascolo brado è scarsamente rappresentato nei territori al di sopra degli 800 metri e localizzato nel comune di Lizzano in Belvedere nelle zone di crinale intorno al Corno alle Scale. I casi di predazione osservati (Tab. 19-I) si riferiscono ad allevamenti di collina e sono difficilmente attribuibili al Lupo, bensì più facilmente a cani vaganti. La presenza del Lupo anche in questa provincia è irregolare e localizzata soprattutto nella valle della Segavecchia, intorno al lago di Brasimone e nell’alta val di Savena. In provincia di Forlì-Cesena la maggiore diffusione del pascolo brado, soprattutto ovino, si riscontra nell’alta valle del Savio, nei comuni di Verghereto e Bagno di Romagna, nei quali infatti si riscontra la maggior parte dei danni (Tab. 20-I).

Tab. 16-I - Danni al bestiame attribuiti a canidi in provincia di Parma negli anni dal 1994 al 1996.
Comune 1994 1995 1996 Totale
Albareto 12 0 0 12
Bedonia 0 7 7 14
Berceto 21 7 9 37
Borgo Val di Taro 9 11 45 65
Corniglio 12 0 0 12
Monchio delle Corti 16 0 0 16
Palanzano 18 0 0 18
Totale 88 25 61 174

Tab. 17-I - Danni al bestiame attribuiti a canidi in provincia di Reggio Emilia negli anni dal 1994 al 1996.
Comune 1994 1995 1996 Totale
Castelnovo nei Monti 0 0 0 0
Collagna 2 0 0 2
Ramiseto 14 0 0 14
Villa Minozzo 51 120 27 198
Totale 67 120 27 214

Tab. 18-I - Danni al bestiame attribuiti a canidi in provincia di Modena negli anni dal 1988 al 1995.
Comune 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1995 Totale
Fiumalbo 0 0 0 0 10 4 0 14
Frassinoro 0 29 0 33 2 25 4 93
Lama Mocogno 0 16 0 0 0 0 0 16
Montese 0 4 0 0 0 0 0 4
Pavullo 0 0 0 31 0 0 0 31
Pievepelago 9 11 24 23 8 30 4 109
Riolunato 5 0 0 0 0 0 0 5
Zocca 0 0 0 0 0 49 0 49
Zola Predosa 0 43 0 0 0 0 0 43
Totale 14 103 24 87 20 108 8 ##

Tab. 19-I - Danni al bestiame attribuiti a canidi in provincia di Bologna negli anni dal 1990 al 1996.
Comune 1990 1992 1993 1994 1995 1996 Totale
Casalfiumanese 0 0 28 63 3 0 94
Castel d'Aiano 0 0 3 0 0 0 3
Castel del Rio 0 0 0 5 0 4 9
Castel S. Pietro 0 0 0 20 0 0 20
Dozza 0 0 12 0 0 0 12
Gaggio Montano 0 0 0 0 32 0 32
Grizzana Morandi 15 10 8 0 0 0 33
Loiano 0 8 0 0 0 0 8
Monte S. Pietro 0 0 0 0 0 7 7
Monterenzio 16 0 13 27 0 6 62
Monzuno 13 0 0 0 0 0 13
Pianoro 0 6 0 0 0 0 6
Totale 44 24 64 115 35 17 299

Tab. 20-I - Danni al bestiame attribuiti a canidi nei comuni montani della provincia di Forlì-Cesena negli anni 1993-1996.
Comune 1993 1994 1995 1996 Totale
  Bovini Ovini Bovini Ovini Bovini Ovini Bovini Ovini Bovini Ovini
Bagno di Romagna 2 14 0 9 2 13 1 38 5 74
Portico-S.Benedetto 0 16 0 10 0 3 0 0 0 29
Premilcuore 2 11 1 8 0 7 0 15 3 41
Sarsina 0 6 0 6 1 7 1 3 2 22
S. Sofia 0 0 3 5 5 3 3 2 11 10
Tredozio 0 6 1 7 1 24 1 0 3 37
Verghereto 0 51 2 48 0 47 0 40 2 186
Totale 4 104 7 93 9 104 6 98 26 ##

Come già evidenziato in altri studi italiani (Meriggi et al., 1991, 1996) la predazione sui bovini ha interessato in larga misura vitelli di età non superiore a un mese; E’ stato infatti più volte sottolineato come i vitelli siano accessibili ai lupi quasi solamente nelle primissime settimane di vita, in quanto già dopo le prime due settimane vengono inclusi nella mandria la quale esercita una difesa attiva nei confronti dei predatori. In generale gli ovini vengono preferiti per le loro dimensioni e per il fatto che, a differenza dei bovini, non sono in grado di elaborare una valida strategia antipredatoria. In alcune aree (Appennino Tosco-Romagnolo) (Matteucci, ined.) è stato osservato che i risultati emersi dall’analisi della dieta appaiono in contrasto con quelli relativi ai danni alla zootecnia, infatti a fronte di una presenza quasi irrisoria del bestiame nella dieta ( circa il 3% in volume) si registrano invece danni piuttosto consistenti, soprattutto a carico degli ovini. Inoltre è stato rilevato che la maggioranza dei danni si è verificata in prossimità di centri o casolari abitati, a modesta altitudine e in aree in generale piuttosto antropizzate, fatto che farebbe ragionevolmente ipotizzare che molti dei danni siano stati provocati da cani vaganti, intendendo con questo termine soprattutto cani di proprietà privi di efficace controllo. E’ probabile quindi che l’applicazione di misure atte ad aumentare il livello medio di controllo cui sono sottoposti i cani di proprietà, soprattutto di razze da pastore e da caccia, potrebbe portare in breve tempo ad una sensibile riduzione dei danni. Da questo punto di vista l’anagrafe canina, già istituita in ambito regionale, prevedendo l’obbligo dell’apposizione sul cane di un tatuaggio indelebile che permette l’identificazione del proprietario risulta indubbiamente l’intervento più efficace, purchè ovviamente sia accompagnato da un valido sistema di verifica del grado di applicazione della legge. Se quindi con ogni probabilità una parte non trascurabile dei danni va attribuita a cani, va inoltre osservato che molte aggressioni si verificano in condizioni di carente o inesistente custodia. E’ stata al contrario più volte sottolineata l’efficacia dei cani da pastore nel prevenire o limitare i danni alla zootecnia causati da lupi nella maggior parte delle situazioni (Green e Woodruff, 1983; Green et al., 1984). Ciò fa ritenere che incentivi volti al miglioramento del livello di custodia cui è sottoposto il bestiame, potrebbero risultare estremamente utili nel contenimento dei danni.


Conservazione
Dopo quasi due decenni di protezione legale lo status del lupo in Italia è certamente migliorato, anche come conseguenza di una maggiore sensibilità da parte dell’opinione pubblica alle problematiche di conservazione delle risorse naturali in generale. Tuttavia presso settori tuttora ampi della popolazione, soprattutto rurale, il lupo continua ad essere considerato quanto meno uno scomodo competitore, la cui protezione legale risulta un provvedimento del tutto incomprensibile. Il risultato è l’uccisione ogni anno di parecchie decine di esemplari, soprattutto laddove la presenza del lupo si pone come elemento di conflitto con le attività umane. Dal momento che la fascia montana appenninica emiliano-romagnola presenta potenzialità mediamente buone, in alcuni casi ottime, per l’affermazione di una popolazione stabile di lupo, è lecito prevedere che in futuro questo territorio sarà sempre più interessato da una regolare e non trascurabile presenza della specie. Laddove sono presenti cospicue popolazioni di ungulati selvatici l’alimentazione è risultata pochissimo dipendente dal bestiame domestico, anche se danni più o meno consistenti alla zootecnia sono segnalati regolarmente in quasi tutte le province interessate. Indipendentemente dal fatto che i lupi presenti siano più o meno coinvolti in questi episodi, tale situazione crea indubbiamente malcontento e comporta costantemente il rischio di ritorsioni indiscriminate da parte degli allevatori, oltre naturalmente a rappresentare un onere economico per tutta la comunità. In questo senso ulteriori indagini sarebbero auspicabili soprattutto allo scopo di acquisire più dettagliate informazioni sul problema dei danni alla zootecnia e al loro contenimento, con particolare riferimento al ruolo dei cani vaganti, di proprietà e non. Parallelamente un regolare monitoraggio della popolazione di lupo consentirebbe di valutarne la dinamica o eventuali modificazioni dell’areale locale in funzione di variazioni delle risorse ambientali o di interventi di origine antropica. D’altra parte occorre considerare che, nel caso in cui le risorse alimentari alternative risultino scarse, la predazione sul bestiame può diventare decisiva per la stessa sopravvivenza del lupo. In effetti in alcune situazioni si può evidenziare una relazione tra la disponibilità di prede sia domestiche (soprattutto ovini) che selvatiche e la presenza del Lupo. In particolare nella provincia di Piacenza, dove si è registrato un netto decremento della consistenza del bestiame al pascolo brado non associato ad un equivalente incremento delle popolazioni di ungulati selvatici, si sono determinate condizioni inadatte al mantenimento di una popolazione stabile di lupi.
Un elemento fondamentale della strategia di conservazione del lupo in Italia è stato individuato nella istituzione o nella riqualificazione di una rete di aree sufficientemente estese e con caratteristiche ecologiche tali da garantire nel tempo la sopravvivenza di nuclei non dipendenti dalla presenza di attività zootecniche tradizionali e/o di altre fonti alimentari di origine antropica. E’ facile comprendere come aree con tali caratteristiche rivestano un’importanza particolare nell’economia generale di una popolazione di lupo come quella italiana, i cui parametri strutturali e comportamentali risultano frequentemente alterati a causa della mancanza di situazioni ambientali in grado di offrire condizioni ecologiche adeguate alle esigenze complessive della specie.
Attualmente in ambito regionale alcune aree protette già esistenti, come il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, M. Falterona e Campigna e il sistema dei Parchi Regionali dell’Alto Appennino emiliano, rappresentano aree che offrono grandi potenzialità in quanto riassumono le caratteristiche ambientali considerate particolarmente funzionali alle esigenze di conservazione del lupo. Anche per questo meritano la massima attenzione dal punto di vista gestionale, garantendone nel tempo l’integrità paesaggistica e la massima naturalità delle biocenosi.
Appare quindi sempre più evidente come l’impegno per la conservazione del lupo, così come degli altri grandi predatori, assuma in realtà una valenza ben più ampia, dal momento che la salvaguardia del lupo si basa innanzitutto sulla conservazione dei grandi erbivori, a loro volta strettamente legati alla qualità della gestione forestale e venatoria.


Considerazioni conclusive
La distribuzione territoriale dei dati finora raccolti mette in evidenza l'esistenza di aree di particolare importanza dal punto di vista riproduttivo, accanto ad altre di valore più limitato, ma importanti nell’economia generale della popolazione in quanto aree di dispersione ed eventuale colonizzazione. Sulla base delle informazioni disponibili, attualmente presenza stabile e riproduzione del lupo risultano accertate nella fascia altoappenninica ricadente nelle province di Forlì-Cesena, Reggio-Emilia e Parma. Molti comprensori presentano buone caratteristiche per quanto riguarda la qualità e la quantità della copertura boschiva, la ricchezza faunistica e l’integrità ecologica complessiva, anche se la presenza, certamente regolare ma ancora piuttosto "discreta", farebbe comunque pensare che negli ultimi anni non si sia verificata alcuna riproduzione.
I dati disponibili sull’alimentazione indicano che laddove le condizioni ambientali lo consentano, il lupo tende ad assumere il ruolo di predatore specializzato nella cattura di grandi erbivori selvatici in modo relativamente indipendente dalla disponibilità di fonti alternative, quali ad esempio la piccola selvaggina, i micromammiferi, il bestiame domestico o alimenti di origine vegetale, che in altre aree risultano più o meno utilizzate a integrazione della fonte principale. Un altro elemento che emerge chiaramente dall’esame dei dati è la relativa facilità con cui il lupo, in funzione delle condizioni stagionali e/o ambientali, può spostare la pressione predatoria da una specie all’altra; ciò vale in particolare per il cinghiale, il capriolo e il daino, probabilmente in misura minore per il cervo. In definitiva i dati raccolti sembrano indicare che il cinghiale e il capriolo, laddove sufficientemente abbondanti, sono perfettamente in grado di sostenere lungo tutto l’arco dell’anno le necessità alimentari del lupo, indipendentemente dalla presenza di altre fonti alimentari. In questo senso, considerando la diffusione e, in molte aree, la tendenza all’aumento di queste due specie, è facile ipotizzare che nei territori montani regionali esistano elevate potenzialità per l’espansione del lupo.
In ogni caso la situazione odierna per quanto concerne l’Emilia-Romagna è sostanzialmente diversa rispetto a quella riferibile agli anni ‘70, anche se ciò non è ancora stato recepito sufficientemente nè dall’opinione pubblica nè, spesso, dalle pubbliche amministrazioni. Oggi il lupo è un’entità faunistica la cui presenza va considerata un fatto normale nel territorio regionale. Gran parte dei territori montani della regione offre condizioni ecologiche adatte alla presenza del lupo, anche se non necessariamente regolare nel tempo. E’ pertanto abbastanza plausibile che nei prossimi anni si assista alla colonizzazione di nuovi comprensori, anche in considerazione del fatto che il cinghiale rappresenta una realtà ben diffusa in tutto l’Appennino e che il capriolo è in espansione.
L’esame dei dati riguardanti i danni alla zootecnia, unitamente ad altri elementi emersi dallo studio dell’alimentazione, fanno ritenere che una parte significativa, anche se difficilmente quantificabile, dei danni sia attribuibile a cani vaganti. Pertanto interventi tesi ad un maggiore controllo del livello di custodia cui sono sottoposti i cani di proprietà e ad una limitazione del randagismo potrebbero risultare estremamente utili nel contenimento di questo fenomeno. E’ necessario dunque un piano coordinato di riduzione del randagismo canino, onde contenere il problema entro limiti compatibili sia con la sopravvivenza del lupo che con lo svolgimento delle attività zootecniche tradizionali.


Bibliografia

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